Categoria: Interviste
Pubblicato Sabato, 04 Gennaio 2014 11:02
Visite: 2486

John Kirwan, neozelandese, campione del mondo di rugby con gli All Blacks nel 1987, è stato uno dei più forti attaccanti di tutti i tempi. Ha militato, come giocatore, nella Benetton Treviso, nelle cui fila vincerà lo scudetto 1988/89, ed è stato, in seguito, allenatore della nazionale italiana e di quella giapponese. Attualmente collabora anche come testimonial sportivo, affiancando consulenti aziendali in eventi formativi centrati sui temi della passione, motivazione, sviluppo personale, teambuilding e teamcoaching.

D: Tu sei stato un grande giocatore e ti occupi ora anche di formazione. Nessuno meglio di te, dunque, può mettere in luce i punti di contatto fra questi due mondi…

 

R: Il rugby è uno sport particolare: se tu dai tutto al rugby ti torna tanto indietro, se tu ti limiti ad aspettare qualcosa dal rugby, prendi solo botte. È uno sport generoso ma abbastanza crudo, che non ammette compromessi, e questo lo faccio presente quando ho l’occasione di incontrare dei manager, ai quali sono solito dire:” se non avete la capacità di comunicare, se non siete capaci di essere dei leader, restituite il vostro stipendio e tornate a essere dei normali impiegati”. Quando diventi un manager, non cambia soltanto il tuo conto in banca: il ruolo che occupi di obbliga a migliorarti, a crescere. Anche il rugby è un po’ così: guai a considerarlo uno sport “normale” perché prima o poi prendi le botte. E quando sei un manager è vero che ti trovi in alto ma sei anche allo scoperto, tutti ti vedono, non puoi nasconderti.

 

D: Mi sembra però che nelle aziende le persone non siano più abituate a questa trasparenza, a questa onestà, sono piuttosto portate a non dire effettivamente come stanno le cose, a nascondere eventuali difficoltà incontrate sul lavoro, eventuali errori. Con il risultato che una volta che questi errori escono fuori ti ritrovi a essere licenziato. Se tu invece ogni lunedì fai il quadro della situazione e comunichi eventuali azioni errate, sai benissimo che se dimostri di voler cambiare, di crescere, è possibile trovare dei rimedi…

 

R: Il problema, a livello manageriale, è che troppo spesso non ci sono regole, non si affrontano i problemi e, se questo accade, prima o poi finisce in rissa. Quando si determina un conflitto bisogna subito allestire un tavolo di discussione, convocare una riunione, nella quale, però bisogna affrontare i problemi in base a delle regole e se queste non ci sono bisogna istituirle. Nel rugby la prima regola è l’onestà e sarebbe opportuno trasferire questa regola in azienda. L’onestà presuppone il confronto e un giocatore di rugby non ha alcun problema a confrontarsi. Io ho scoperto con grande rammarico che in Italia nella maggioranza dei casi la furbizia viene considerata una qualità. Io sto veramente male quando si tessono le lodi di chi è capace di arrivare all’obiettivo prendendo delle scorciatoie. Nel rugby non lo puoi fare perché alla fine devi comunque combattere, devi affrontare il conflitto in campo aperto. Mio figlio Luca mi ha detto qualche giorno fa:” papà, non mi piace placcare”. Io non ho mai conosciuto un giocatore – eccetto forse qualche samoano – a cui piacesse placcare e io personalmente non vedevo l’ora di attaccare. Eppure placcavo. Devi ovviamente avere la tecnica per poterlo fare e, quando è il momento, il coraggio di metterla in pratica, anche se puoi avere paura. Le persone si trovano spesso ad affrontare delle difficoltà ma, soprattutto i giovani, non sanno come farvi fronte. Io sto cercando di capire perché questo accade e mi sono chiesto più volte se il motivo non risieda nelle differenze tra la nostra epoca e la loro. Ai nostri tempi non c’erano tutti questi ritrovati tecnologici di cui dispongono oggi i giovani, ai quali basta un click per accedere a qualunque contenuto. Questi stessi giovani, però, hanno paura del buio. Non dovrebbe essere così. La tecnologia dovrebbe darti libertà, non renderti più insicuro, confuso. Io a 12 anni non solo dormivo da solo ma andavo a lavorare. I giovani di oggi possono avere 200 amici ma in realtà sono soli. Mio padre mi diceva: “se tu hai cinque amici di cui ti puoi fidare sei un uomo fortunato”. Possono dire altrettanto i ragazzi di oggi, i cui amici sono per lo più virtuali e un po’ tutti uguali? Hai mai visto qualcuno brutto in Facebook?

 

D: Tu oggi lavori con le aziende e prima hai parlato del rapporto fra leadership e regole. Questo rapporto, a tuo avviso, va in ogni caso preservato, anche quando ti  trovi a competere con altre aziende che non rispettano le regole? E in tal caso, il rugby può venirti in soccorso e in che modo?

 

R: Prima di provare a diventare un leader dovresti fare una sorta di contratto con te stesso:” io per raggiungere questo obiettivo sono disposto a fare queste cose”, tenendo presente che essere un manager non è certo un punto di arrivo ma implica una crescita continua. Per questo un manager deve affrontare il terreno dell’autocritica e chiedersi che cosa vuole diventare. Un manager finanziario, ad esempio, può essere disponibile a rischiare di perdere tutto pur di fare profitto oppure può decidere di avere un atteggiamento conservativo. Se si trova in un momento di difficoltà, può decidere di dire una bugia al cliente o scegliere di comunicargli comunque la verità. Se un manager non si chiarisce preliminarmente su questi aspetti non ha prospettive.

 

D: In Nuova Zelanda il rugby fa parte della cultura nazionale. In Italia questo posto è occupato dal calcio, che però non può certo essere assunto come modello vincente per le aziende, visto che è uno sport pieno di “furbizie” (il giocatore che fa finta di cadere in area di rigore o di aver ricevuto un colpo dall’avversario), senza contare che fra la gente che va allo stadio c’è una consistente fetta di persone che non lo fa perché interessata al gioco ma solo per scontrarsi con la tifoseria avversaria. Da questo punto di vista, il rugby potrebbe contribuire in maniera fondamentale a cambiare la cultura di questo paese…

 

R: Sono d’accordo. A mio figlio, che in questo periodo sta affrontando una serie di paure, io ripeto spesso: “Luca, il rugby non è uno sport, è un modo di vivere, di confrontarsi con l’altro”. Tutti hanno paura ma per superare questa paura devi scendere in campo con il desiderio di divertirti. Come allenatore, vorrei che tutti i miei giocatori avessero la capacità e la possibilità di divertirsi come mi sono divertito io. E divertimento significa innanzitutto non mollare mai.

 

D: Io ho riscontrato che sia i ragazzi che approcciano il rugby – ma anche molte persone in azienda – hanno una paura terribile di sbagliare, probabilmente perché pensano che se emergesse un errore a loro carico sarebbero associate per sempre a quell’errore. Sarebbero “segnate”, in qualche modo. Non riescono a considerarsi semplicemente delle persone che in una determinata circostanza non sono state all’altezza del compito. Io ripeto spesso ai ragazzi che alleno: potete sbagliare un lancio, potete sbagliare un placcaggio o un passaggio ma non è quello che a me interessa. A me interessa il vostro atteggiamento, la vostra reazione. Se avete commesso un errore dovete accettarlo e sforzarvi di porvi rimedio, non girarvi verso il vostro compagno come per addossargli la colpa.

 

R: Io penso che la maggior parte delle persone abbiano paura di fare brutte figure, mentre invece l’errore è un’occasione di crescita. Quando mio padre, ricoverato in ospedale, si aggravò, mia sorella mi chiamò per dirmi che forse era arrivato il suo momento e che era il caso che io stessi con lui. Io sono andato a trovarlo e lui appena mi ha visto mi ha detto: “Che cosa stai facendo qui? Ti hanno chiamato perché pensano che stia morendo, vero?” Io gli ho risposto di sì, e lui: “No, non è ancora arrivata la mia ora”, e infatti è vissuto ancora un altro anno. In quell’occasione, comunque, ho trascorso tre giorni con lui in ospedale, nel corso dei quali mi ha fatto tre domande che hanno segnato la mia vita. La prima: “Se tu dovessi morire domani – mi chiese- moriresti sereno?” Io gli ho risposto che era una domanda troppo impegnativa, alla quale non sapevo rispondere, e lui ha replicato: “Beh, allora datti da fare, sistema la tua vita, perché il giorno che te ne andrai non dovrai avere rimpianti”. In un’altra occasione mi ha chiesto: “Qual è la cosa peggiore che potresti fare?” E io gli ho risposto: “Dimmi tu quale potrebbe essere”. E lui: “Essere in coda”. “Cosa significa essere in coda?”, gli ho risposto. E lui: “Essere un mediocre. Per come la penso io, o vai prima al lavoro o vai dopo. Se sei in coda vuol dire che sei come tutti gli altri”. Io non ho trovato di meglio che dirgli che gli volevo molto bene e che era stato un padre straordinario, ma lui anche su questo mi ha corretto, facendomi notare che in realtà aveva cercato solo di essere migliore di suo padre.

 

D: Io con la prima regola che ti ha trasmesso tuo padre ho fatto i conti quando avevo 18 anni. Ero andato ad assistere a una partita della nazionale italiana e, finito l’incontro, sono andato con un mio amico a festeggiare la vittoria. Eravamo in moto, quando una macchina in sorpasso ci ha investito. Il mio amico è morto e io ho riportato molte gravi fratture. Nei 40 giorni che ho trascorso in ospedale e, in seguito, durante la lunga riabilitazione, io ho sempre pensato che dovevo vivere e migliorarmi, perché avevo dei debiti con la vita. Avevo sperimentato che sarei potuto morire in qualunque momento e che avrei potuto lasciare questi debiti inevasi. Per quanto riguarda, invece, la raccomandazione di tuo padre di “non essere mai in coda”, posso dirti che personalmente cerco sempre di superare, anche se di poco, il mio limite del momento…

 

R: Quest’ultima cosa che hai detto a proposito dei debiti e dei crediti che una persona può vantare nei confronti della vita mi è utile per raccontarti l’ultima cosa mi ha chiesto mio padre in quei giorni di ospedale: “Quante persone credi verranno al tuo funerale?” Ora, tieni presente che mio padre faceva il macellaio, è andato in pensione a 64 anni ed è morto a 84, cioè vent’anni dopo aver abbandonato la sua attività. Bene, al suo funerale c’erano 700 persone. Un macellaio! Io mi sarei aspettato al massimo una ventina di persone, e invece ce ne erano 700 e in tante mi chiesero se potevano essere loro a portare fuori la bara dalla chiesa. Come si spiega tanto affetto e tanto rispetto? Sapevo che lui faceva credito a tante persone, ma mi è stato tutto più chiaro quando ho scoperto un libro dove annotava i nomi di tutti quelli a cui regalava la carne perché non potevano permettersi di comprarla…

 

D: Parliamo di fiducia. Io penso che nel rugby la fiducia si misuri subito. In una mischia se non hai fiducia negli altri sei finito, in difesa se so che un mio compagno si cura del placcaggio di un avversario io posso dedicarmi al mio. In un’azienda, secondo te, come si può lavorare su questo aspetto della fiducia?

 

R: Spesso fare affidamento sulla fiducia è avvertito come un sintomo di debolezza. Per me fiducia è  poter dire a un mio compagno: “Senti, non mi trovo del tutto a mio agio, puoi aiutarmi?” Nelle aziende, invece, dire “io non ce la faccio a fare da solo questa cosa” equivale ad ammettere di essere un debole, un perdente. Tu non puoi avere fiducia senza onestà, non puoi avere onestà senza rispetto, non puoi avere rispetto senza sapere dove andare. Un manager quando arriva in un’azienda si sente un dittatore, si sente libero di impostare il lavoro come meglio crede e si cura poco della crescita di chi gli sta intorno. Ma se vuole davvero contribuire allo sviluppo dell’azienda, deve costruire le condizioni per cui chi è sotto di lui possa un domani sostituirlo. Deve perciò accettare di essere contraddetto, se necessario, se questo serve a condividere degli obiettivi. Ma per far questo deve avere fiducia in chi gli sta intorno.

 

D: Io quando sono arrivato in Banca Generali, trascorrevo in ufficio 5 giorni a settimana, dal lunedì al venerdì. Oggi mi limito a starci 2 o 3 giorni a settimana. Gli altri li trascorro a casa a pensare come poter impostare il lavoro. Ma posso farlo, come dici tu, perché ho fiducia in chi collabora con me. Per quanto riguarda gli obiettivi, io li dichiaro sempre. Prima li metto a punto, poi li rendo noti pubblicamente. Utilizzo una sorta di schema fatto di cerchi concentrici: i miei obiettivi personali, quella della mia famiglia, quelli che riguardano l’azienda e in ciascuna fascia – chiamiamola così – inserisco le persone che ritengo siano necessarie a raggiungere l’obiettivo corrispondente. Nell’80% dei casi, io, come ti dicevo, dichiaro pubblicamente quali sono gli obiettivi da raggiungere.

 

R: Sì, ma chi decide che quelli sono gli obiettivi? Tu da solo? Troppo facile e, al tempo stesso, rischioso perché gli obiettivi potrebbero essere più di quelli che tu inserisci nel tuo schema.

 

D: Allora ti faccio un esempio: se la mia banca per il prossimo semestre mi chiede di raccogliere 45 milioni di euro, io mi prefiggo come obiettivo di raccoglierne almeno 150…

 

R: Bene, ma se tu convochi una riunione con i tuoi collaboratori e loro propongono di raccoglierne 200 di milioni, come ti comporti? Quando un manager lavora con una squadra non deve mai essere lui a fissare degli obiettivi; devono essere i suoi collaboratori a farlo. Questo significa porre le basi per la crescita della leadership. Se tu vuoi che un domani una persona prenda il tuo posto devi dare ad almeno 6 persone l’opportunità materiale di farlo. Se sei tu a decidere gli obiettivi, gli altri sono ovviamente contenti perché non devono esprimersi, non devono esporsi personalmente e responsabilizzarsi. Ma tu non saprai mai se invece di 150 avresti potuto raccogliere 200 milioni. Se io voglio che la squadra di rugby che alleno entri fra le prime otto del mondo devo far sì che questo obiettivo sia espresso, verbalizzato dai giocatori, non devo farlo io.

 

D: D’accordo, ma se la squadra è convinta di non poter andare oltre il decimo posto? Se, cioè, l’obiettivo dichiarato dai giocatori è inferiore alle mie attese?

 

R: Io penso che tu debba chiederti innanzitutto che tipo di capitano – o di manager – sei. Sei uno che ama motivare e spiegare le decisioni o uno che si limita a dire: “bisogna fare così”? Se hai avuto successo fino a ieri, non puoi accontentarti, non puoi ritenerti soddisfatto. Domani potrebbe cambiare. Nella vita e anche a livello manageriale non c’è un’unica risposta giusta. Si può solo cercare di crescere e di migliorare. Non c’è una regola fissa, altrimenti basterebbe leggere un libro. Se si sbaglia, l’importante è farlo con onestà, mettendosi in gioco e cercando di raggiungere un obiettivo comune. Un “eroe” onesto è il meglio che ci possa essere: impara e va avanti. Dopo aver allenato la nazionale italiana di rugby e quella del Giappone ho pensato di collaborare con qualche team italiano ma in seguito ho deciso di non farlo perché ho verificato che qui gli addetti ai lavori, in primis gli allenatori, sono convinti di sapere tutto, di non aver bisogno di imparare ancora. Giorni fa ho avuto un incontro con due allenatori italiani e si è discusso ovviamente di tattiche di gioco. Se facevo delle considerazioni o fornivo qualche suggerimento loro rispondevano puntualmente che erano a conoscenza del problema e avevano già pronta la contromisura. Però alcune manovre, alcuni schemi, sono semplicissimi sulla carta ma difficilissimi da realizzare sul campo. Se io, nella mia esperienza professionale di All Black, ho avuto l’opportunità di sperimentare queste soluzioni tattiche potrei essere una risorsa per un allenatore. Quando invece ho visto che non c’era nei miei interlocutori alcun reale interesse per quello che dicevo sono entrato in crisi e ho capito che non avrei mai collaborato con un club italiano. In azienda è la stessa cosa: se vuoi essere un leader devi metterti in discussione perché tutto cambia, il rugby, l’azienda, il mondo. Devi “spingere”, devi spingere anche a rischio di sbagliare. Questa è la mia filosofia, una parola che amo. Che cosa vuol dire filosofia? Avere un’idea e se hai un’idea sarai sempre avanti rispetto agli altri, sarai in grado di cambiare, di ragionare fuori dagli schemi.

 

D: Ma nel mondo di oggi il cambiamento si trova a fare i conti con la velocità, i tempi di riflessione si restringono…

 

R: Sì, ma per essere veloce e vincente tu devi aver studiato il contesto che ti circonda, devi saperlo analizzare. I manager italiani mi creano imbarazzo perché sono concentrati solo su come aumentare il proprio reddito…

 

D: È vero. In più posso aggiungere che spesso il manager italiano è solo azione. Io credo invece che ci debba essere un tempo riservato alla riflessione, al ragionamento. Il manager dovrebbe essere come un allenatore. Che ha i suoi schemi in testa ma, allo stesso tempo, è in grado di analizzare quello che succede in campo per dare di volta in volta delle indicazioni. Ci può riuscire solo se sa quando fermarsi a pensare e quando agire. Noi manager spesso non ne siamo capaci.

 

R: Perché la maggioranza si accontenta di stare in coda. Stare in coda dà sicurezza, pochi hanno il coraggio di andare avanti.