Categoria: Interviste
Pubblicato Sabato, 04 Gennaio 2014 11:41
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Andrea di Lenna insegna Human Resource Management for International Firms presso la facoltà di Economia dell’università di Padova. È direttore generale di Performando e autore di La fabbrica dei campioni (con Daniele Manara), Edizioni Il Sole 24 ore, Milano 2004, Time out Management, Edizioni Il Sole 24 ore, Milano 2009, Performare in azienda, Lampi di stampa 2007. Ha lavorato come consulente in Galgano & Associati e nella Direzione Risorse Umane in aziende quali Aprilia, Luxottica ed Emerson

D: Nella tua attività di formatore ti occupi da sempre del rapporto fra sport e organizzazione. Qual è, a tuo avviso, la caratteristica che, più di altre, fa del rugby uno strumento efficace per illustrare le dinamiche aziendali e migliorare la prestazione?

R: Per rispondere alla tua domanda occorre individuare l’aspetto saliente del rugby rispetto ad altre discipline sportive. Cos’è la salienza? E’quella specie di pilota automatico di cui tutti gli esseri umani dispongono e che si attiva nel momento in cui accadono eventi particolari. Possiamo riscontrare la vigenza di questo meccanismo in relazione alle differenze cromatiche, all’introduzione di movimento e alla presenza o meno di luce. Facciamo degli esempi: in un campo verde con un papavero rosso, la salienza rappresenta la differenza di colore fra l’erba e il fiore. Questo contrasto attiva un dispositivo attentivo irresistibile, che non puoi contrastare in alcun modo. Se a una serie verde succede all’improvviso un elemento di colore rosso, quest’ultimo attrae inevitabilmente la tua attenzione, la blocca. È un meccanismo psicologico largamente utilizzato in pubblicità che nasce però da un automatismo. Stessa cosa per il movimento: siamo tutti seduti in aula, si apre la porta perché uno studente entra in ritardo e tutti si girano. La salienza consiste in questo caso in una differenza in termini di movimento. Per quanto riguarda la luce, potremmo fare l’esempio degli illusionisti, che convogliano l’attenzione dove loro desiderano, facendoti vedere le cose più importanti dove c’è più luce rispetto ad altre zone, sfruttando anche in questo caso il meccanismo della salienza. Venendo al nostro discorso: in che cosa è saliente il rugby? Nella sfera delle emozioni. Tutti gli esseri umani sono sensibili alle emozioni, perché noi siamo fatti prima di emozioni e poi di razionalità. Quindi quando incontriamo qualcuno che ci parla di qualcosa con emozione, tocca in noi un tasto saliente. Recentemente sono stato a un convegno al quale hanno partecipato molti relatori tecnicamente ineccepibili dei cui discorsi, però, stento a ricordare i passi salienti. L’unico di cui ho ben impresso in memoria tutti gli argomenti affrontati è quello che, nella sua esposizione, ha palesato emozione, passione. Il rugby è saliente perché mette le persone nella condizione di recuperare una dimensione emotiva che nella vita quotidiana viene riposta in secondo piano perché siamo stati cresciuti con una logica manageriale basata su una logica razionale. Ma la ragione viene sempre dopo la parte emotiva.

 

D: Non posso che concordare. Il mio modello di management è sicuramente improntato all’emotività; ci possono essere manager con delle capacità tecniche anche superiori alle mie che tuttavia riportano risultati largamente inferiori perché non toccano le corde emotive delle persone con le quali entrano in relazione.

 

R: Esatto. Il rugby ha questa caratteristica, che tocca la “pancia” della gente perché chi te ne parla evoca delle cose che ha vissuto a livello viscerale e che proprio per questo riesce a trasmettere in maniera efficace. E questa, tra l’altro, è una modalità di gestione che è stata codificata da numerosissime ricerche, che evidenziano come in questi casi venga recuperata la componente emotiva più “femminile”, quella cioè più attenta alle corde emotive, mentre in genere la managerialità lavora sulla componente razionale e tende all’asetticità. Ora, questa asetticità non è che non produca risultati ma in misura sicuramente inferiore rispetto a quelli che si posono raggiungere mediante il coinvolgimento emotivo. Io spesso in aula evoco, a titolo di esempio, un’immagine che mi è rimasta impressa della finale del mondiale di calcio del 2006 fra Italia e Francia, un’immagine degli spogliatoi vuoti in cui sono in bella evidenza le maglie dei giocatori, appese sugli appositi supporti in un ambiente ordinatissimo. Nel rugby questa immagine non sarebbe mai possibile perché la maglia ai giocatori la dà personalmente il capitano, non prima di aver fatto loro un discorsetto o di averli guardati fisso negli occhi. Questo rito provoca sul giocatore di rugby che scenderà in campo una reazione del tutto diversa da quella del giocatore di calcio: anche se per entrambi la maglia della nazionale è la stessa, nel caso del rugby giocatori alti due metri e che pesano 130 chili piangono nel riceverla. Per quale ragione? Perché dietro quel pezzo di stoffa ci sono una serie di valori che il rugby riesce a comunicare meglio di qualsiasi altra disciplina sportiva.

L’altra cosa che rende saliente il rugby dal punto di vista manageriale, è che non c’è nessun altro sport di squadra che mette in campo 15 giocatori così diversi tra loro in termini di ruolo. Questo aspetto presenta moltissime analogie con la sfera manageriale, perché anche lì ci sono moltissimi ruoli e responsabilità diverse, anche se bisogna andare tutti nella stessa direzione. Nel rugby, tuttavia, questo obiettivo è particolarmente difficile da raggiungere perché le caratteristiche soggettive dei giocatori sono estremamente variegate, la stessa prestanza fisica si esprime in vario modo, visto che ci sono atleti che spiccano per velocità e spunto, altri che hanno struttura e potenza e l’abilità dell’allenatore consiste nel far coesistere profili così diversi. Eppure questo in campo non traspare e chi assiste a una partita può ammirare giocatori estremamente solidali fra loro. Questa solidarietà non è gratuita ma si ottiene grazie all’operato dell’allenatore. L’altro aspetto estremamente interessante del rugby - e che stimola analogie con l’azienda moderna - è che i giocatori sono obbligati ad andare avanti sempre e comunque e possono raggiungere l’obiettivo solo cooperando fra loro. È una legge che non risparmia alcun ruolo: ci sono giocatori – come quelli del pacchetto di mischia - che fisicamente non vedono la palla eppure sanno perfettamente cosa devono fare e contribuiscono in maniera decisiva al gioco di squadra.

 

D: In effetti, a ogni singolo ruolo corrisponde un diverso profilo tattico e anche una spinta motivazionale diversa. Il pilone, per esempio, ha il compito di spingere in avanti e di avanzare di un metro nella mischia; l’ala deve afferrare il pallone e correre al massimo della velocità per fare meta; la seconda linea è importante che prenda il pallone in touche il più alto possibile. Dunque dei ruoli completamente diversi che occorre mettere insieme…

 

R: Esatto. Un altro elemento interessante del rugby è che uno sport completamente controintuitivo: ti obbliga a ragionare molto e continuamente perché ha un regolamento composto da 118 regole (il calcio, per esempio, ne ha 16 o 17) che ti mette fortemente sotto pressione…

 

D: È una pressione data non solo dal ragionamento ma anche dall’impatto fisico, che fa paura perché ti può far male. Anche la pallavolo è uno sport molto veloce ma se tu sbagli la palla va fuori o va per terra. Nel rugby se sbagli qualcosa rischi di farti veramente male…

 

R: È così. E, se vogliamo, il terzo elemento di pressione è la necessità di difendere la reputazione della tua squadra, che si chiami All Blacks o Tarvisium Rugby non comporta alcuna differenza: inevitabilmente, il comune sentire dei giocatori li porterà a parlare della loro squadra con le lacrime agli occhi, il che indica la costruzione di un forte elemento identitario.

Ma, dicevamo, il rugby è un gioco controintuitivo perché corri in avanti e passi la palla indietro, il che è ovviamente una cosa innaturale e per poterlo fare devi accettare il fatto che hai bisogno dell’aiuto degli altri. È un duro colpo all’individualismo, che è tanto presente nella cultura italiana.

 

D: Hai toccato un tasto per me molto importante e che mi piacerebbe mettere in risalto nella tesi, e cioè la funzione educativa del rugby, che può essere uno strumento utile non solo per la formazione aziendale ma anche per la scuola, per la formazione dei ragazzi e dei bambini. Consentirebbe di superare la logica delle scorciatoie, dell’individualismo, contrasterebbe la tendenza alla prevaricazione, instillerebbe dei valori morali e li farebbe anteporre agli interessi economici o legati al successo individuale. Tu fai anche molta attività di formazione nelle aziende e nel rugby si parla molto di etica. Hai riscontrato che questo piano etico sia sostanzialmente accettato nelle aziende o piuttosto viene rifiutato, magari con la motivazione che l’azienda deve comunque fare utili, business.

 

R: Tutte le aziende cercano di trovare una propria modalità di azione vincente. In realtà io credo che il piano dell’etica e quello del business siano molto più compatibili di quanto si creda. È vero che perseguendo una visione etica si rischia di trovarsi in fuorigioco rispetto alle aziende meno etiche, però penso che la questione vada affrontata rispetto al tipo di obiettivo che si intende perseguire. Indubbiamente l’etica è premiante per gli obiettivi di lungo periodo ma può essere penalizzante nel breve periodo, per cui è una scelta che tocca a noi. Io personalmente sono assolutamente convinto che sia necessaria un’etica aziendale, i cui presupposti dovrebbero prendere spunto proprio dal rugby: rispettare le regole e l’avversario, non contestare l’arbitro e le scelte dell’allenatore, accettare la formazione che viene messa in campo e giocare con le risorse che si hanno a disposizione, senza, insomma, accampare alibi. Chiaramente prima si inizia a lavorare su questo piano meglio è, e per questo è importante il piano didattico, far conoscere ai bambini e ai ragazzi il rugby che, rispetto ad altri sport, ha nei valori i suoi fondamenti. L’individualismo è un’attitudine molto gettonata nel nostro paese, in particolar modo in Veneto, terra di grandissimi imprenditori, con tante idee originali ma che mostrano difficoltà quando si trovano a strutturare queste idee o quando si trovano a dover lavorare con qualcuno con il quale non condividono alcune modalità operative o finalità.

Un’altra suggestione utile che possiamo trarre dal rugby riguarda le modalità organizzative. Una delle caratteristiche degli italiani è quella di essere molto abili a risolvere un problema negli ultimi dieci minuti: in questo siamo probabilmente i migliori al mondo. Tuttavia, se pianificassimo un po’ meglio il lavoro non avremmo bisogno degli ultimi dieci minuti. Detto in altri termini, poiché non siamo in grado di programmare bene dobbiamo sviluppare un’altra capacità che è quella, appunto, di risolvere i problemi all’ultimo istante. Nel rugby questo non è possibile, non puoi giocare malissimo i primi 70 minuti e benissimo gli ultimi 10, ma sei costretto a pianificare. John Kirwan mi diceva una volta che se tu avverti dolore in una certa parte del corpo significa che quella è proprio la parte che devi allenare di più. Se sei allergico all’organizzazione significa che quello è l’aspetto che devi migliorare. Organizzazione e individualismo sono le 2 caratteristiche che ci hanno fatto raggiungere risultati straordinari ma solo perché non abbiamo sviluppato tutta un’altra serie di elementi che ci avrebbero consentito di essere comunque i migliori al mondo ma in maniera più stabile e probabilmente per più tempo. Abbiamo ancora ampi margini di manovra. Quello che nel campo del rugby, a livello di nazionale, non siamo ancora riusciti a ottenere in termini di risultati, guarda caso ha proprio a che fare con le modalità organizzative, alle quali continuiamo a rimanere allergici sfruttando l’alibi che siamo latini. Fino a quando continueremo a usare questo alibi non usciremo dal loop. Noi dovremmo chiederci: siamo latini, quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi? Dobbiamo quindi rinforzare i punti di forza, che è la prima parte del processo di miglioramento, e poi lavorare sugli aspetti da migliorare, che nel nostro caso sono proprio quelli della pianificazione e dell’organizzazione.

 

D: Io riscontro questa cosa sia in federazione che nel mio lavoro, nel management. Uno degli ostacoli più grossi che incontrano i professionisti che io coordino è il pianificare un obiettivo stabilito. Se tu chiedi a una persona che obiettivo si dà nel prossimo mese, nel prossimo semestre o nel prossimo anno, va in crisi, perché rifiuta di porsi una meta e di conseguenza di strutturare un percorso per raggiungerla.

 

R: In effetti, sempre ragionando sulle analogie fra le attività di formazione e il rugby, bisogna considerare una cosa: la metafora del rugby è importantissima poiché essendo saliente da innumerevoli punti di vista (per fare un esempio è controintuitivo e dunque ti obbliga a rompere degli schematismi, a pensare in modo diverso) ti mette nella condizione di ragionare in maniera diversa anche su un brevissimo percorso. La cosa fondamentale è cogliere quel momento e non un altro per cominciare a razionalizzare subito qualcosa, perché se trascorre troppo tempo la gente torna indietro e, malgrado quello che ha vissuto possa essere stato importante, ne perde i benefici. Quindi, dopo aver vissuto la parte di carattere emotivo, che è quella che il rugby sollecita, occorre passare alla parte di razionalizzazione, cioè sfruttare l’onda emotiva che si è generata per lavorare sull’aspetto di strutturazione.

Altro aspetto decisivo è chi propone queste cose. Nell’attività di formazione, infatti, è saliente la componente emotiva e in questo il rugby è imbattibile rispetto ad altri sport perché è molto più probabile trovare nel rugby, indipendentemente dal ruolo o dal tipo di esperienza che si è avuta, delle persone che sono in grado di parlare di questo sport a un altissimo livello di competenza emotiva. Ti faccio l’esempio della Tarvisum: quando il vostro presidente ci ha illustrato la storia della vostra esperienza, della vostra azienda, ho visto persone che non avevano mai sentito parlare di rugby commuoversi. Questa è la prova che, indipendentemente dal livello in cui giochi, sei in grado di proporre delle cose in modo molto efficace. In altri sport – calcio, pallavolo, basket – puoi trovare degli atleti straordinari ma non tutti sono in grado di comunicare in maniera efficace la loro esperienza. Nel rugby è forse vero l’opposto: indipendentemente dal livello culturale, tutti possono parlare dei valori di questo sport, del valore della solidarietà, di cosa significa avanzare o difendersi insieme, di cosa significa coraggio o rispetto. In altri discipline sportive questo non accade: non che si sottovaluti il rispetto, ma affrontare questo termine nel rugby ha a che fare con la sopravvivenza e quindi induce a trasferire questa valore anche su altri livelli.

 

D: Ma ci sono degli aspetti per cui il rugby potrebbe dare indicazioni controproducenti?

 

R: Ho potuto verificare che uno dei rischi del rugby è che spinge le persone a prendere decisioni molto impegnative in un lasso di tempo molto ristretto e il rischio è quello di fare una sorta di operazione “copia e incolla” fra il mondo sportivo e quello aziendale. Non è possibile decidere di cambiare tutto in azienda solo perché il giorno prima si è fatto un corso in cui si utilizzava il rugby come metafora, perché sull’onda dell’emotività si possono adottare decisioni che non portano ad alcun risultato. Faccio l’esempio del calcio: si è compresa la rilevanza del cosiddetto “terzo tempo” del rugby e si è deciso di trasferirlo anche nel gioco del calcio ma questa semplice adozione, di per sé, non ha risolto nulla dei problemi del calcio. Non ha senso “obbligare “ qualcuno a stringere la mano di qualcun altro. Personalmente una raccomandazione che faccio alla fine dei miei corsi è dire “non prendete nessuna decisione domani, pensate soltanto a quello che potreste fare in modo da avere il tempo di scegliere la modalità giusta”. Le cose non si possono cambiare dall’oggi al domani. Il rischio di modificare comportamenti consolidati è che possiamo apparire dei folli, e in una tale valutazione ci sarebbe anche un fondo di verità, almeno che non si ritenga di essere stati investiti da un’illuminazione divina. Dunque ragionare bene e muoversi con cautela. L’altro rischio è quello di rifarsi al rugby esclusivamente come una palestra dove mettere in evidenza il proprio coraggio (l’affrontare un giocatore più grosso di te, più pesante ecc.). Il rugby, in realtà, non si basa su questo presupposto. Il coraggio è una componente importante ma il rugby non è uno sport da gladiatori. Quando faccio un corso di formazione non dico che è un corso sul rugby: il rugby è solo uno strumento per parlare di alcuni valori e di alcune dinamiche aziendali. Né mi interessa far giocare le persone a rugby per far provare loro le emozioni della mischia o del contatto fisico, perché è uno sport che ha bisogno di preparazione tecnica e rischia di essere molto pericoloso.

 

D: Quali sono a tuo avviso le fasi del gioco del rugby che si possono adattare meglio alle attività di formazione: la touche, la difesa…

 

Io non ho mai giocato a rugby e questo costituisce per me un grande dispiacere ma l’aspetto che da appassionato mi ha sempre molto affascinato è la difesa: se nel rugby non avanzi in maniera unitaria non riesci a difendere e questa cosa implica mille sfumature: avanzare tutti insieme può apparire facile o difficile ma la cosa più importante su cui ragionare è che tu devi possedere una serie di qualità straordinarie, e cioè: visione laterale, capacità comunicative per tenerti insieme al compagno alla tua destra e alla tua sinistra, mettere da parte le tue capacità individuali, considerare a che velocità devi salire perché se sali troppo veloce non fai il bene della squadra. Questo è un esempio eclatante di come nel rugby sia obbligatorio retrocedere da un punto di vista individuale alla mentalità collettiva della squadra: o si sale tutti insieme o, se sali troppo velocemente, crei un buco, che è paradossalmente la peggior difesa che tu possa fare. E’ la logica paradossale di cui il rugby è intriso, come sostiene un libro recente, Andare avanti guardando indietro[1].

Del resto, il pensiero paradossale stimola la riflessione, obbliga a ragionare. Non esiste una altra disciplina che vi attinga così profondamente come il rugby. Va anche detto, però, che questo modo di intendere la difesa è innanzitutto frutto dello spirito di squadra, quello stesso spirito che fa sì che due nazionali si affrontino – per esempio gli All Blacks e la nazionale gallese –, la prima inscenando l’haka e la seconda rimanendo in assoluto silenzio ma guardando fisso negli occhi gli avversari in segno di sfida. La cosa interessante è che queste “provocazioni”, questi atti di sfida e questi sberleffi si fondono sempre con un profondo rispetto per l’avversario, ed è difficilissimo tenere insieme sfida e rispetto; eppure questo intreccio si riverbera in qualsiasi azione del gioco del rugby. Il ruolo dell’arbitro, per esempio, è quello dell’educatore. In quale sport l’arbitro prima di fischiarti il fallo ti avverte e ti spiega i motivi per cui sta per farlo? E in quale sport il giocatore accetta senza protestare la sanzione e si scusa? Prendiamo il rapporto fra l’arbitro di campo e quello addetto al monitoraggio televisivo: se c’è un’azione controversa e l’arbitro di campo si rivolge a quello televisivo per avere chiarimenti, quest’ultimo gli dice “puoi o non puoi concedere la meta”, non “devi o non devi”. Anche in questo caso siamo di fronte a una forma di rispetto dei ruoli che sarebbe preziosissima se riportata nel mondo aziendale.

Ci sono due frasi che a mio avviso rendono molto bene l’idea del ruolo che può svolgere lo sport. Una è una frase di Nelson Mandela di ormai 7/8 anni fa, che pronunciò in occasione della premiazione dello sportivo dell’anno: “Lo sport può cambiare il mondo”, e nel rugby vi sono evidenze eclatanti in questo senso (basti pensare che è l’unico sport in cui gli irlandesi giocano tutti insieme sotto un’unica bandiera e un’unica maglia). L’altra frase che mi ha particolarmente colpito è quella di Sebastian Coe: “Lo sport ha il mondo dentro”. Ora, quando vengono proposte delle metafore, il mondo di chi fa formazione si spacca in due: c’è una parte di questo mondo, forse più della metà, che va alla ricerca del perché quella metafora non funzionerà; e in effetti, ci saranno sempre mille ragioni che potranno spiegare perché una certa modalità non funzionerà mai una volta trasposta da un settore all’altro, senza contare gli effetti della profezia che si autoavvera (se tu pensi che non funzionerà mai puoi stare certo che non funzionerà mai). C’è un’altra parte del mondo della formazione, invece, quella forse ancora minoritaria ma che probabilmente ha più probabilità di successo da qui in avanti, che è in grado di comprendere come può essere utilizzato qualcosa che proviene da un altro contesto, atteggiamento che da sempre ha dato vita all’approccio innovativo, creativo, strategico. Non si spiegherebbe come avrebbe fatto Henry Ford a creare la catena di montaggio prendendo spunto dalle macellerie. Io credo che il nostro scopo, soprattutto quando parliamo di formazione manageriale, sia quello di abituare la gente a ragionare su mondi diversi. Se oggi vogliamo essere competitivi dobbiamo essere in grado di pescare da tutti i mondi e di adattarli al nostro contesto, cercando di capire qual è la differenza fra un mondo e l’altro, capendo che in un certo contesto servono certe competenze, in un altro ne servono altre, ma proprio per questo dobbiamo avere occhi e orecchie particolarmente aperte. Il rugby ti mette in condizione di farlo. Lavorando con Kirwan, ho riscontrato che lui è una persona che legge di tutto e si interessa di tutto, cosa abbastanza rara per sportivi di altre discipline. La curiosità è fondamentale nel nostro lavoro, se non sei curioso non cresci. È chiaro che l’essere curioso comporta dei rischi ma se tu devi gestire un’organizzazione o sei curioso o la gestisci in maniera piatta.

 

R: Io alleno le squadre giovanili, quest’anno gli under 14, ma ho allenato anche gli under 18, e faccio fare loro una volta a settimana lotta greco-romana che ha delle valenze straordinarie dal punto di vista affettivo, riguardo alla paura del contatto, del cadere per terra, dell’abbracciarsi. Oggi i bambini se cadono con la bicicletta rischiano di ammazzarsi. Altri ragazzi che invece hanno maggiori difficoltà a trattare la palla, ma hanno invece aggressività e forza fisica, li mandiamo una volta a settimana a fare un allenamento di basket. In altre parole cerchiamo di condividere pratiche di altri sport che possono risultare utili per migliorare la perfomance nel nostro.

 

D: Vorrei tornare alla questione dei valori nello sport. Personalmente ho avuto dai miei genitori una serie di valori inossidabili e questa attenzione ai valori l’ho ritrovata frequentando alcuni sportivi e alcuni formatori che utilizzano molto lo sport per le loro attività, dai quali ho appreso che io posso essere, nel mio campo e nel mio contesto, il numero uno. Chiaro, limitatamente alle mie competenze, abilità, esperienze. Non posso misurarmi con una persona alta 2 metri, non posso partecipare alle olimpiadi a 47 anni, non posso più praticare certe attività agonistiche. Ma posso, però, valorizzare al massimo quello che sono, cercando di far emergere quelle attitudini e quelle competenze nascoste che possono farmi fare il salto di qualità. Questo dovrebbe essere la mission del formatore e per questo non tutti possono fare formazione. Non è un libro di management che può cambiare le cose, non sono i contenuti che fanno la formazione, sono le persone che veicolano i contenuti che possono suscitare attenzione e interesse e, in definitiva, contribuire a cambiare le cose.



[1] Bergamasco M., Bergamasco M., Rampin M., Andare avanti guardando indietro, Ponte alle Grazie, Firenze 2011