Categoria: Interviste
Pubblicato Sabato, 04 Gennaio 2014 12:10
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Andrea Passerini è giornalista della “Tribuna di Treviso” ed esperto di rugby italiano e internazionale.

D: In quasi tutte le interviste che ho fin qui realizzato, il discorso ha, a un certo punto, virato sul terreno dei valori, spesso senza che io lo sollecitassi. Per un rugbysta sono dunque così importanti i valori e quali in particolare?

 

R: I valori fondanti di questo sport sono molto forti, altrimenti non si spiegherebbe come nei suoi quasi 190 anni di storia il rugby abbia potuto esprimerli in tanti paesi diversi, coinvolgendo classi sociali agli antipodi, operando, insomma, in una serie di contesti geografici, sociali e culturali così variegati. Mi sembra evidente che il fatto che uno sport come il rugby sia giocato tanto dai pescatori del Pacifico che dai futuri manager della classe dirigente inglese dei college di Oxford, Eaton e Cambridge, sia in qualche modo la conferma della sua universalità. Questi valori oggi vanno tutelati perché da 20 anni a questa parte il rugby subisce spinte iperprofessionistiche, con tutti i possibili rischi di inquinamento etico, di doping, di annacquamento dell’identità che ciò comporta. Questa è la sfida principale che si presenta oggi al rugby, alla quale non sfuggono realtà come quella italiana, che non può vantare ancora un tessuto diffuso ma vive piuttosto di forti identità regionali, provinciali o distrettuali. In Italia, in altri termini, c’è una crescita indubbia dell’attenzione verso il rugby - il che si traduce in una sua maggiore visibilità, o exposure, come direbbero gli inglesi – ma a questa non è associata la crescita di una struttura organizzativa forte, radicata. I valori di cui è portatore, dicevo, sono però universali e il mondo aziendale farebbe bene a farli suoi, a maggior ragione in una fase storica come quella odierna, – caratterizzata da una crisi finanziaria innescata proprio da manager senza scrupoli e da figure di speculatori che hanno operato a scapito della collettività. Ecco, il valore del collettivo, del gruppo – tratto distintivo del rugby - credo che debba essere il primo a essere recuperato da una cultura aziendale che voglia rinnovarsi, che voglia dotarsi di anticorpi e organizzare  forme di autodifesa del proprio mondo, la cui credibilità è minacciata non solo dai crack finanziari ma dalle conseguenze che questi crack determinano nella società, a partire dalla disoccupazione e dalla precarietà di massa. Riorientare lo sguardo verso la collettività sarebbe per l’azienda anche una scelta di autoconservazione, poiché il mercato, se non ci sono consumatori che lo alimentano, alla fine muore. La cultura aziendale o manageriale, inoltre,  ha alimentato per anni una sorta di santificazione dell’uomo solo - sia esso il grande manager o il self made man -, ha celebrato l’exploit individuale, ignorando che le grandi dinasty, le grandi strutture familiari hanno fatto il loro tempo e stanno mostrando, di generazione in generazione, tutte le loro fragilità e debolezze. Dunque il valore del collettivo è forse il primo “mattone rugbystico” che la cultura economica farebbe bene a importare. Detto questo, è anche vero che il concetto di gruppo, di team, di squadra non deve far dimenticare né il ruolo giocato dal talento individuale, né quelle che sono le responsabilità individuali. Qui sta la sfida che si pone all’azienda: coniugare in maniera virtuosa collettivo e individualità. Su questo piano il rugby può costituire uno strumento prezioso perché valorizza la squadra come forse nessun altro sport sa fare, senza però mortificare il ruolo del singolo. Qualunque allenatore di rugby ti insegna che da solo, lì in campo, non puoi fare nulla senza il sostegno dei tuoi compagni, senza sentirti parte di un progetto di giuoco che coinvolga tutti. Se vai da solo contro l’avversario, senza il sostegno della squadra, ne esci matematicamente con le ossa rotte. Questo insegna il bellissimo concetto di “sostegno”. D’altra parte, un’organizzazione non può prescindere da quello che è il talento individuale. Ecco, io penso che il rugby insegni che il talento individuale, le risorse e i numeri di ciascuno vadano in qualche modo anch’essi messi al servizio della squadra per migliorare la prestazione collettiva; devono diventare un valore aggiunto per il gruppo. Qui l’azienda deve imparare dal rugby: da un lato costruire nuovi equilibri, nuove forme di cooperazione, di corresponsabilità, di cogestione dei problemi e delle attività; dall’altro salvaguardare i talenti e le competenze individuali. Questa è il compito che attende ogni allenatore e a ogni manager.

 

D: Ho visto che la sede del tuo giornale è organizzata in forma di open space, con varie persone che durante il lavoro comunicano fra loro, si scambiano informazioni, si consultano a vicenda, e questo mi ha fatto tornare in mente l’ambiente dello spogliatoio. Nello spogliatoio non c’è un leader ma il capitano, eletto dalla squadra. E in un’azienda come il tuo giornale? 

 

R: Il giornale è uno strano prodotto, perché da un lato è un prodotto collettivo ma, dall’altro, è fatto di firme individuali. Anche qui, dunque, c’è da coniugare gli aspetti dell’individualità con la struttura di un’organizzazione, che si articola in vari sotto gruppi o settori. In più, il giornale è comunque un prodotto ibrido perché per un verso è culturale (editoriale) e dall’altra imprenditoriale. Tornando alla questione dell’individualità e declinandola sul lato della leadership, vorrei citare uno slogan anglosassone molto bello che recita “leading by example” e che si attaglia alla figura del capitano più che a quella del leader; non sempre, infatti, le due figure coincidono, e del resto ci sono varie tipologie di leadership, che spesso divergono su aspetti rilevanti. Nelle organizzazioni di sistema, nei gruppi in generale, il rapporto fra individuo e collettivo è fondamentale. Il rugby, con la sua natura di gioco semplice e complesso, fatto di mani e di piedi, di reparti e di individualità, credo abbia moltissimo da insegnare su questo versante e suggerisce considerazioni di vario tipo, anche di carattere antropologico. Confrontando il rugby con il football americano, ad esempio, abbiamo l’opportunità di leggere i caratteri fondativi, costituenti di due culture: il football riproduce sostanzialmente la storia degli Stati uniti, l’avanzata che gli americani hanno fatto dalla costa est alla costa ovest, fino a divenire la nazione che sono oggi. E il cuore del football è racchiuso proprio nell’obbligo di avanzare sul campo per occupare il territorio avversario. Il rugby, invece, è meno individualistico e lo si evince facilmente dalla sua regola cardine, che impone di passare la palla indietro e di non dimenticare gli altri. Questa norma, che nasce da un’intuizione geniale, rispecchia, a mio avviso, la cultura di tipo europeo e, in particolare, quella anglosassone. Il rugby, cioè, è uno sport di avanzamento ma temperato, filtrato, corretto, dall’obbligo di condividere questa avanzata. Nel football puoi portare individualmente avanti la palla mentre gli altri ti spazzano l’orizzonte davanti; nel rugby la fatica di avanzare viene alleggerita dall’avere i tuoi compagni a fianco, che ti sostengono, a patto, però, che tu passi loro la palla. È  una sorta di monito a non dimenticarti di chi sta dietro di te. E’ l’espressione della cultura europea, che ha sempre cercato di mitigare l’individualismo con l’attenzione verso l’organizzazione sociale o quanto meno verso la comunità, nonostante il rugby abbia come antenati gli sport militari o di battaglia e si sia propagato attraverso le sfide fra villaggi o comuni (penso all’harpastum romano a Firenze), abbia insomma alle spalle un filone millenario di guerra simulata.

 

D: Il rugby ti permette di combattere queste battaglie senza uccidere le persone, rispettandole ma facendoti anche da loro rispettare. Potrebbe essere, a tuo avviso, un altro insegnamento valido per l’azienda?

 

R: Per rispondere, parto anche in questo caso da una caratteristica straordinaria del rugby, che consiste nel continuo muoversi lungo una linea immaginaria di fuorigioco che non va mai travalicata, pena lo snaturarsi del gioco, e che separa l’aggressività dalla violenza. L’aggressività può esprimersi in forma fortissima – attraverso il placcaggio, l’attacco alla linea del vantaggio ecc. – ma si traduce in un assalto frontale che non consente alibi o furberie perché è condotto alla luce del sole, in modo molto chiaro, molto esplicito. Non c’è filtro, non c’è trucco, non c’è escamotage, e questo è uno dei maggiori punti di forza di questo sport, che ti chiede di dare libero sfogo all’aggressività ma di non farla mai diventare pura violenza. È un valore straordinario, mai sottolineato abbastanza. In Italia su questo aspetto ha lavorato in tempi non sospetti (oltre 25 anni fa) Bobby Robazza, che fece la sua tesi di laurea sull’apporto che il rugby poteva dare all’educazione dei bambini. Io trovo che questo valore formativo consista innanzitutto nell’incanalare questa aggressività, nel disciplinarla e avviarla verso un piano di squadra, collettivo, che travalica l’individuo. Nel rugby è una sorta di imperativo categorico, tanto è vero che per anni, almeno fino a quando non sono subentrate telecamere e riprese televisive ravvicinate,  l’arbitro tollerava che un giocatore si “vendicasse” su altro che avesse violato questo limite invisibile che separa l’aggressività dalla violenza. Insomma, chiudeva un occhio perché chi aveva fatto una scorrettezza o una “furbata” andava immediatamente punito tramite questa sorta di codice etico, in quanto i danni che si possono arrecare all’avversario sono gravissimi. Oggi la violenza e la natura degli impatti, con la crescita fisica dei giocatori, è diventata mostruosa: recuperando le poche nozioni di fisica che ancora ricordo, la quantità di moto è data dalla formula p= mv. Nei cambiamenti di velocità, cioè, a incidere non è solo la variazione di velocità ma anche quella di massa. La velocità che prima toccavano giocatori di 70 o 80 chili di peso oggi è raggiunta da atleti con una stazza che va dai 90 ai 110 chili, il che determina che la quantità di moto a ogni impatto aumenti di 1,2 o 1,3 volte rispetto al passato. Bene ha fatto il rugby a combattere la violenza con riprese e prove televisive, infliggendo pesanti squalifiche ma la garanzia dell’arbitro in campo è imprescindibile. Dovrebbe essere così anche nel mercato, che dovrebbe essere governato da un arbitro forte, autorevole e in grado di erogare gli opportuni provvedimenti nei confronti di chi viola le regole. Nel rugby ci sono i cartellini gialli, i cartellini rossi, i 10 minuti di squalifica temporanea o i 3 o 4 mesi per i fatti più gravi. Nel campo della finanza, occorre che chi opera correttamente sia tutelato da organismi di vigilanza che comminino sanzioni adeguate e che vengano poi fatte rispettare secondo il principio della certezza della pena. I tanti investitori spregiudicati che imperversano in borsa in questi ultimi tempi, o quelli che truccano appalti o commesse servendosi di rapporti oscuri fra mondo politico e imprenditoriale, potrebbero ricevere una severa sanzione se si applicassero i principi del rugby.

Tornando al discorso sulla formazione, io, come ti dicevo,  parto da una visione della vita che risente probabilmente dagli studi umanistici che ho fatto ed è distante, per molti aspetti è agli antipodi, dalla cultura dell’azienda. Credo tuttavia che un po’ di formazione rugbystica giovi non solo ai manager ma anche a chi opera in azienda a livelli bassi o intermedi. Qui in Veneto, da molte zone un tempo povere, come quella di Treviso, si emigrava ancora nel 1965; ho incontrato gente in Australia che era andata via da Treviso- città negli anni sessanta, quando il boom economico era già esploso in Italia da anni. Penso che il forte radicamento del rugby e di un altro sport di fatica come il ciclismo in queste terre economicamente povere e arretrate rispetto al resto d’Italia, non sia casuale. In questi sport, secondo me, c’è una componente di emancipazione e di riscatto per chi li pratica, c’è una grammatica della fatica, del sacrificio anche personale (giocare a rugby su un campo ghiacciato o correre fino allo stremo delle forze su una bicicletta) che in qualche modo ha trovato immediato riscontro nell’esperienza di questa comunità. È vero che il rugby si giocava anche all’università di Padova, di Milano o di Roma, ma non può essere sottaciuto che esso abbia avuto i suoi natali nella nostra zona e in un’altra anch’essa un tempo molto depressa e caratterizzata da una grande povertà, quella di Rovigo e del Polesine. Anche questa potrebbe essere una lezione per l’azienda: ora che sono finiti i guadagni facili, i fatturati record e i progressi a tre cifre, ora che sono scomparse le piccole, sconosciute officine che diventavano grandi imprese dal nulla, oggi che tutto questo è drammaticamente tramontato, non puoi più raccontarti favole, non puoi più pensare di aprire un locale per qualche anno  per poi chiuderlo e goderti la pensione. Qualcuno lo ha potuto fare negli anni ‘80 ma adesso non è più possibile, almeno se operi nell’ambito delle regole. In questo contesto di crisi il rugby può venire in soccorso: l’avanzamento metro dopo metro, centimetro dopo centimetro, il dover lavorare tutti per guadagnare poco a poco la linea di meta è secondo me un messaggio importante che il rugby può dare. L’altro valore del rugby che andrebbe recuperato è quello che ha permesso per anni di praticare questo sport sia al ragazzo ciccione, sia a quello magrolino, sia al gigante sia a quello di corporatura media; tutti potevano giocare a questo sport, tutti potevano trovare una collocazione, chi in prima  linea, chi in mediana. Oggi nel rugby professionistico non è più così, come testimonia il fatto che è stato eletto giocatore dell’anno Sam Williams, che sarà alto come me o quasi (1,82 cm, Ndr). Ma questa idea che tutti possono dare qualcosa è stato il punto di forza del rugby nella sua campagna di reclutamento qui da noi. Quando ero un ragazzo, io e molti altri l’abbiamo colta e vissuta; oggi va difesa, recuperata – io dico nel rugby prima ancora che nelle aziende – per valorizzare quel poco che uno ha all’interno di un progetto collettivo.