D: Tu hai stabilito molti record del mondo in tutte le discipline dell’apnea. Le aziende ti chiamano, quindi, anche per giovarsi della tua esperienza sul limite…

R: Tempo fa ero a Valencia per partecipare a una conferenza alla quale una multinazionale americana mi aveva chiesto di intervenire per parlare del concetto di “limite”. Ho ricordato ai presenti che trent’anni fa si riteneva che l’uomo non potesse andare oltre i 40 - 45 metri di profondità; oggi, invece, siamo arrivati a 200 metri. Allo stesso Maiorca tutti i medici dicevano che sarebbe morto se fosse arrivato alle profondità alle quali è poi effettivamente giunto. Maiorca è per me un esempio lampante di come i limiti possano essere costantemente migliorati. Lui diceva: “Quelli che vogliono impormi dei limiti non sono mai scesi sott’acqua, non sanno quello che vuol dire e a me non va di essere costretto in una gabbia. Nessuno al mondo conosce meglio di me l’ambiente sottomarino, nessuno meglio di me conosce le reazioni del mio corpo a quelle profondità. Del resto se gli esperti sbagliano le previsioni meteo e quelle politiche, perché non dovrebbero sbagliare anche una previsione medico-scientifica, fisiologica, che si basa comunque su criteri puramente teorici, su modelli matematici che non possono contare sul riscontro materiale di quello che effettivamente accade nel mio corpo?”. Il concetto di Maiorca in definitiva era semplice: a 50 metri di profondità non era andato mai nessuno, solo io so quello che succede. È il mio territorio, so come muovermi, conosco le mie potenzialità, quindi non esistono delle regole generali. O meglio, esistono ma vanno adattate di volta in volta alla situazione specifica. Tornando al discorso delle aziende, in genere mi invitano per sapere come sono stati costruiti i miei record. Per esempio, all’epoca del mio primo record del mondo, il primatista in carica era il cubano Pipìn Ferreras, che era imbattuto da sette anni e del quale si diceva avesse cominciato ad andare sott’acqua prima ancora di imparare a camminare. Io, al contrario, ero uno sconosciuto che veniva da Busto Arsizio, che però era consapevole delle proprie potenzialità mentre gli altri o non le conoscevano o facevano finta di non conoscerle perché tifavano per Ferreras, che era un mito, un’icona. Quando ho fatto il mio primo record era presente la RAI a filmare l’evento e questo mi sorprese perché dopotutto ero un perfetto sconosciuto e in più l’apnea è uno sport che non ha certo la stessa risonanza e lo stesso pubblico del calcio. Eppure le immagini del record passarono molte volte in televisione. Due anni dopo a Ustica, in occasione di una gara internazionale di apnea, scoprii l’arcano. A fare le riprese, infatti, c’era la stessa troupe televisiva, guidata dallo stesso giornalista, con il quale una sera mi ritrovai a cena e, chiacchierando, uscì fuori che ci eravamo conosciuti a Porto Azzurro due anni prima, nel 1990. Lui mi svelò che in realtà fu un caso che la troupe fosse lì; il motivo reale era che la RAI stava producendo un documentario di medicina (“Medicina e salute”) e doveva andare in onda una puntata sul tema “svenimenti e sincopi” per la quale non avevano immagini. “Per questi mi hanno mandato a filmare te”, mi disse. Lo ricordo per far capire che tipo di credibilità avessi io a quel tempo. Oggi ringrazio comunque la mia caparbietà: se avessi ascoltato chi mi consigliava di lasciar perdere perché era impossibile battere Pipìn, non avrei mai fatto il record e a quest’ora sarei forse un informatico grigio e triste; non perché gli informatici lo siano ma semplicemente perché sarei stato costretto a fare un lavoro che non mi piaceva. Tornando alle aziende: in genere mi chiedono come si affronta una situazione considerata “limite”, come ci si allena fisicamente e mentalmente prima della prova, cosa rappresenta e che ruolo gioca il sacrificio, se ci si sente appagati una volta stabilito il record. Lo spirito di sacrificio a mio avviso è determinante; non è un caso se in tanti sport i campioni sono dei neri nati nei sobborghi e cresciuti in palestre maleodoranti, che puzzano di sudore e fatica. Direi che è poco probabile che chi si allena in una palestra linda e ultratecnologica abbia sperimentato in prima persona il concetto di sacrificio, che invece per me è stato fondamentale per trovare gli stimoli giusti per superarmi. Ti racconto un altro episodio. Qualche anno fa ero a Venezia, dove stavo tenendo una conferenza insieme a Orlando Pizzolato - l’atleta delle tue parti che ha vinto due maratone di New York -, il quale in quell’occasione fece un po’ la storia della sua vita. Raccontò di non essere nato in una famiglia ricca (il padre faceva i materassi) e che a lui proprio non piaceva andare a scuola, tanto che il suo profitto era un disastro. Un giorno il padre si arrabbiò e gli disse: “Se non ti va di andare a scuola verrai con me a lavorare”. Pizzolato per la verità non aveva fiducia neppure nelle sue capacità di atleta, tanto meno nelle sue potenzialità di maratoneta. Però si mise alla prova: per ricavare due o tre ore libere il pomeriggio in cui andare a correre e allenarsi, andava in bottega due o tre ore prima la mattina. In occasione di quella conferenza, Pizzolato fu molto chiaro e disse di aver vinto la sua prima maratona di New York grazie a quel sacrificio. Parlando della gara, raccontò di essere andato in fuga con un messicano; quando mancavano poche miglia al traguardo entrò in crisi, stava male. Usò questa espressione: “avevo le vipere nello stomaco”. Il suo avversario se ne accorse e iniziò ad allungare. “In quel momento – raccontò - ho chiuso gli occhi e ho rivisto tutti i materassi che avevo cucito nella mia vita, ho rivissuto tutte le notti che non avevo trascorso con i miei amici a divertirmi perché la mattina alle cinque dovevo alzarmi per andare in bottega. Non so se sia stato per quello – continuò Pizzolato - ma fatto sta che le mie gambe ricominciarono a girare, raggiunsi il mio avversario e tagliai per primo la linea del traguardo. Probabilmente se non avessi avuto questo stimolo forte, che mi ha fatto capire quanta energia avevo ancora dentro, non sarei riuscito nell’impresa.” Per me è stato lo stesso. Quante volte in occasione delle immersioni importanti ho pensato a mio padre, che a 25 anni ne aveva già trascorsi 15 in fabbrica! Io ho un temperamento, per così dire, “da guerriero”, cerco di automotivarmi ma il mio allenatore e caposquadra si è premurato comunque di farmi capire l’importanza del sacrificio: “Fa freddo in acqua? Stacci ancora un po’, tanto poi devi andare più in profondità, dove fa ancora più freddo”. A me piace parlare di queste cose quando mi chiamano per qualche conferenza, cerco di non fare il vecchio saggio, ma solo di far conoscere la mia esperienza personale, perché questo è quello che so fare. Non sono un formatore o uno psicologo. Domani mattina terrò una lectio magistralis sul tema della squadra, sull’importanza del team in uno sport così apparentemente individuale come il mio, e sull’importanza dell’allenamento e della motivazione. In effetti, per fare un risultato importante ti devi allenare per mesi e se non hai la determinazione, la “cattiveria” non ci riesci. Nel nostro sport non dobbiamo giocare una partita ogni domenica e per questo l’allenamento diventa centrale. Personalmente avevo studiato un programma di allenamento che mi portava in quota record nell’arco di 10 mesi; prova a immaginare come si può stare dopo 9 mesi e mezzo di allenamento quotidiano - ogni giorno 6 ore – con ancora 15 giorni che ti separano da una prova che dura in tutto 3 minuti. Questo per dire che riuscire a mantenere la concentrazione su un obiettivo molto lontano nel tempo è l’aspetto più difficile da gestire in una disciplina come la mia.

 

D: Cosa dirai domani a proposito dell’importanza del team?

 

R: Per me il team è fondamentale. Nel mio sport l’eventualità di un problema tecnico riguarda più i collaboratori che ti fanno assistenza che l’apneista stesso. Se io ho un problema durante l’immersione mi tirano su in superficie con un pallone in pochi secondi. La cosa si complica quando ha un problema un assistente, per esempio un’embolia o altre situazioni di emergenza. Per scongiurare queste evenienze è necessario un enorme lavoro di squadra, con relativo, complicatissimo, protocollo di sicurezza. Oggi grazie a questi nuovi, sofisticati sistemi di contrappeso, l’apneista va giù da solo fino alla massima profondità e poi risale; quelli che lo assistono, che hanno le bombole, non possono risalire alla sua stessa velocità. Questo sistema di contrappesi funziona con delle carrucole: l’atleta si immerge, arriva giù e nel momento in cui tocca il fondo, ripreso dalle telecamere, vengono aperte delle paratie che mandano giù un peso di 300 kg che riporta in superficie l’atleta in brevissimo tempo. Tu, perciò, in ogni caso ritorno su. Viene però a mancare tutta quella parte umana che nel mio caso, per come ho preparato i record, per come sono stato educato, è fondamentale. Immagina di stare in acqua concentrato, in tensione e ti sentire la pacca sulla spalla di uno della tua squadra. È inevitabile che ti carichi. Quando ho fatto l’immersione a 150 metri, i miei uomini che sono stati 5 minuti a quella profondità hanno fatto 6 ore di decompressione. È dura, durissima, anche perché loro non respirano aria ma una miscela di elio per evitare l’effetto narcosi dell’ossigeno. L’elio è un gas con un peso atomico molto basso e genera delle dispersioni di calore incredibili. Loro soffrono un freddo intensissimo. Il giorno del record, io dopo 3 minuti ero a galla mentre loro avevano ancora 5 ore e 57 minuti prima di venire su. Il giorno prima del record, per prepararsi, sono stati in acqua 5 ore prima di risalire, il giorno prima ancora 4 ore e così via. Questi uomini affrontano tutto ciò pur sapendo che nessuno parlerà mai di loro, che nessuno scriverà mai un rigo sulle loro fatiche e i loro rischi. A loro basta l’orgoglio di far parte di un team che si muove verso una direzione importante, cioè stabilire un record. Per un meccanico entrare in Ferrari è il massimo dal punto di vista professionale e quando lui sarà in quella squadra darà tutto se stesso, anche se nessuno ne parlerà mai. Tieni conto che è gente che guadagna 2500 euro al mese, mica 60.000. Eppure vedi in loro l’entusiasmo, l’amicizia, la massima determinazione. Tornando alla mia squadra, se uno di loro ha un problema bisogna fare la decompressione. Cerco di spiegare cosa succede con un esempio banale. Se questa bottiglia è chiusa, tu non capisci se dentro c’è dell’acqua naturale o gasata. Quando apri il tappo, diminuisci la pressione e si formano delle bollicine che vengono verso l’alto. Quando sei sul fondo l’azoto è sciolto nel sangue; quando inizi a salire e diminuisce la pressione si formano delle micro bolle e se una di queste ti va in circolo, magari nella spina dorsale, rischi una paresi che può costringerti sulla sedia a rotelle per tutta la vita. Allora devi “sgasare” il sangue, come si dice in gergo: utilizzando l’esempio di prima, se un bicchiere d’acqua gassata lo lasci 3 giorni all’aria aperta diventa acqua naturale. Loro devono effettuare una decompressione così lunga perché si devono fermare, respirare ed eliminare le formazioni gassose. Io invece non respiro sul fondo e non devo fare alcuna decompressione. Dunque, se io ho un problema loro intervengono ma se il problema ce l’hanno loro a intervenire è un team di altofondalisti – in genere 2 – che vengono immessi all’interno di una camera iperbarica 3 settimane prima dell’immersione. Questa camera ha la forma di un cilindro posto in orizzontale, è dotata di 2 letti, di speciali finestre a chiusura stagna dove viene fatto passare il cibo e di un angolino chiuso dove c’è il bagno. Gli altofondalisti vivono lì 24 ore su 24 per 21 giorni,  solo loro due e c’è da sperare che si trovino simpatici l’un l’altro…

La loro “ora d’aria” la trascorrono quando entrano nella “campana”, una sorta di bicchiere rovesciato, e vengono portati alla massima profondità per l’assistenza. Finito l’allenamento, rientrano nella camera iperbarica dove staranno fino al giorno dopo, sperando che io non decida di fare riposo, altrimenti dovranno attendere altre 48 prima di fare una nuova “passeggiata” nella campana. La cosa più dura da sopportare è la pressurizzazione della camera iperbarica, che raggiunge le 16 atmosfere per riprodurre le condizioni che si sopportano a 150 metri di profondità; in gergo si dice che vengono portati “in saturazione”. Altro esempio banale per spiegare cosa significa: se tu metti lo zucchero nel caffè e lo giri, lo zucchero si scioglie. Quando però il caffè è intriso di zucchero, è saturo, puoi continuare a metterne ancora ma lo zucchero si accumulerà e non si scioglierà più. Quando stai in acqua oltre un certo tempo e a una certa profondità il tuo sangue è saturo di azoto e che tu stia sotto 1 minuto o 1 mese la durata della decompressione è una e una sola. Perché questi uomini vengono messi in saturazione? Perché la parte più delicata dell’immersione è la decompressione. Se riesco a fare una decompressione ben controllata elimino gran parte del rischio. A questo serve la saturazione. Una volta riemerso, la mia esperienza è finita; per quelli con le bombole durerà ancora 5 o 6 ore, il tempo della decompressione, ma per quelli che vivono nella camera iperbarica in saturazione durerà ancora 3 o 4 giorni. Capisci cosa c’è dietro un record, che lavoro di squadra è necessario? Dietro il tuffo di 3 minuti di un atleta che passerà in video, c’è il lavoro oscuro di tanta gente di cui non saprà mai niente nessuno. Questo è un esempio di spirito di squadra incredibile. Con quella squadra ci si trova 10 mesi prima, si programmano tutte le attività di allenamento, ci si scambia consigli, si studia insieme per decidere quali interventi fare per migliorare il limite precedente, si definiscono tutte le tappe del percorso. Può succedere però che mentre si programma l’allenamento per arrivare a una certa profondità, per esempio 150 metri, un altro atleta raggiunge i 160. A quel punto devi resettare tutto e reimpostare il lavoro per raggiungere almeno i 162 o i 165 metri. Questa eventualità complica enormemente le cose, perché ti costringe a riprogrammare tutto. A me non è mai successo perché ho sempre previsto delle quote ben superiori a quelle precedenti, però può accadere. Questa dimensione di squadra, adesso che mi sono ritirato dall’attività agonistica, è quella che mi manca di più. Del record in sé mi interessa poco. Mi mancano gli sguardi sott’acqua con le maschere, le strette di mano una volta raggiunto il fondo. Sono degli scambi di energia che non si possono descrivere, che conosciamo solo io e loro.

 

D: Tu conosci bene il mondo dell’azienda; su quali aspetti ti consultano più frequentemente e quali criticità riscontri più spesso?

R: In genere mi chiama un’agenzia qualche giorno prima della scadenza fissata per il corso o per la conferenza per verificare la mia disponibilità. La stessa agenzia propone poi il mio nome al cliente. Se c’è accordo,  mi incontro con il cliente, che mi illustra le sue esigenze, il tempo a disposizione, gli argomenti da trattare, che variano di volta in volta ma ce ne è uno che in genere mi chiedono di affrontare, e cioè quello della cooperazione. “Nella mia azienda – mi dicono spesso - si lavora per comportamenti stagni, ognuno pensa al suo orticello senza pensare che mettendo insieme tanti orticelli si costruisce un grande campo. Oppure: nello stesso team coesistono persone che non sono motivate allo stesso modo, hanno degli attriti e non riescono a creare uno spirito di gruppo…

 

D: Nel tuo staff hai mai avuto dei momenti di tensione fra i tuoi collaboratori e come li hai affrontati?

 

R: Innanzitutto gli eventuali problemi non ero io ad affrontarli ma il mio caposquadra. Io ero quello che doveva fare il record ma ero comunque un membro della squadra. Il responsabile era il mio allenatore, che decideva anche a quali profondità andare. Era lui il team leader. È chiaro che talvolta possono manifestarsi opinioni diverse e in quel caso ci si chiude in una stanza e non se ne esce finché non si è trovato un accordo. Personalmente ho verificato che questo tipo di situazioni si manifestavano nel momento in cui c’era meno entusiasmo. Non c’è niente di più virale, di più trasmissibile dell’entusiasmo. Se nella squadra c’è uno che trascina (che non deve essere necessariamente il leader), uno che “ci crede”, allora le difficoltà si superano. Se invece sono tutti demotivati diventa più difficile uscirne fuori ma in quel caso ha un ruolo fondamentale il capo squadra. Posso citare un episodio, era il 1995 o il 1997, non ricordo esattamente, ma avevo comunque già battuto dei record, quando un giorno, parlando con il mio allenatore, venne fuori il discorso sulla squadra, sui componenti da riconfermare e altro. Io ero dell’opinione che “squadra che vince non si tocca”. Lui invece mi rispose: “Squadra che vince si cambia eccome se non ha più voglia di vincere un’altra gara”. Questa è la cosa più difficile: capire prima di iniziare il percorso per la prossima gara se tutti hanno ancora gli stimoli per raggiungere i risultati dell’anno prima. E bisogna farlo subito, perché se lo si scopre a metà strada potrebbe essere già troppo tardi. L’allenatore fece lo stesso discorso anche riferendosi a me: “Io continuerò a seguirti anche se, invece di arrivare primo, arriverai secondo, ma lo farò solo se capirò che sei arrivato secondo perché c’era qualcuno più forte di te. Se invece arriverai secondo perché non hai più la determinazione per arrivare primo, io e te smettiamo di lavorare insieme, perché il tempo che dedico a te io lo sottraggo alla mia famiglia”. Per questo è importante il team leader: è lui che si espone, è lui il parafulmini. A me non è mai arrivata notizia di un problema. I problemi arrivavano a lui, che ne discuteva, mobilitava i suoi contatti, prendeva le decisioni del caso. Da parte mia, dovevo solo andare giù.

 

D: Tu fai uno sport d’acqua. Che idea ti sei fatto del rugby e che ne giudizio ne dai?

 

R: A me piace molto il rugby perché è uno sport dove non puoi fingere. Credo sia lo sport con più regole, e devono essere tutte rispettate. Sotto questo profilo è una metafora della vita. In più è lo sport di squadra per eccellenza. Anche il nuoto ha delle regole ma manca molto questa dimensione di squadra. Io fatto sempre nuoto agonistico e sono passato poi all’apnea che, nonostante tutto quanto detto prima sull’importanza della squadra, resta uno sport sostanzialmente individuale perché quando competi non hai nessuno a cui passare la palla. Il rugby, come la pallanuoto, è uno sport duro e leale, che ti costringe a misurarti con te stesso. È uno sport di contatto ma nobile e spero che un giorno i miei figli vogliano praticarlo.

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