Luca Marcolin è laureato in Economia aziendale. Si è occupato di gestione e sviluppo risorse umane, di controllo di gestione industriale e commerciale, di organizzazione ed internal auditing in numerose aziende, fra le quali Electrolux e Stephanel. Attualmente presta servizi ad aziende di grandi e piccole dimensioni, come consulente di sviluppo organizzativo, formatore ed executive coach

D: Sono sempre di più le aziende che, nell’ambito della formazione delle risorse umane, ricorrono al rugby come strumento per testare la qualità dei rapporti umani e lavorativi all’interno del gruppo, il livello del team building, la capacità di cooperazione e le dinamiche di leadership. Esisterebbero, dunque, delle analogie fra la filosofia e i meccanismi operativi di un’azienda e il gioco di squadra, il che, per la verità, è abbastanza intuitivo, considerato che in entrambi i casi parliamo di gruppi di lavoro che per portare a casa dei risultati devono innanzitutto massimizzare il contributo e valorizzare le potenzialità delle risorse umane a disposizione. Ma perché proprio il rugby? Che ruolo giocano alcuni suoi valori di fondo - la correttezza, la collaborazione, la determinazione, l’amicizia e il sostegno reciproco – e qual è lo spazio che possono occupare nelle dinamiche aziendali di oggi, sempre più pressate dalla competizione e dal perseguimento dei risultati?

 

R: Non c’è dubbio che i valori di fondo in azienda, nello sport e nel rugby in particolare abbiano delle grandi affinità. In un mondo in cui non si può più pensare alle persone come prestatori d’opera fisica o intellettuale ma ci sia bisogno in un lavoro di gruppo che sappia coinvolgere e stimolare il contributo di tutti, lo sport ed il rugby diventano non solo metafora ma campi di verifica per stimolare la crescita dell’azienda sia a livello delle singole persone che a livello di squadra.


D:
In questa dimensione globalizzata e dominata dalla competizione, quale è lo spazio per una dimensione etica dell’impresa? Cosa vuol dire essere etici nel fare impresa e cosa può dare lo sport e il rugby a questa riflessione?

 

R: Avere un comportamento etico sembra controintuitivo in un mondo ipercompetitivo. Preoccuparsi di rispettare non solo le regole formali ma anche e soprattutto le regole morali di un vivere civile sembra impedito dalla pressione che subiamo nel lavoro tutti i giorni. Eppure anche questa frenesia è arrivata al capolinea di un modello industriale e competitivo che ha spento tutte le energie in persone che non trovano più il senso del loro agire. La competizione che lo sport propone è valida per questo, ci ricorda che ci si scanna sul campo ma che la vita vera è fuori, che l’occasione della competizione e della gara non è fine a se stessa ma è stimolo allo sviluppo e alla crescita personale. Che non importa, anzi è dannoso vincere sul campo se poi si perdono le partite della vita.

Il rugby in questo è una scuola di vita, ci si azzuffa sul campo, le regole ci sono e si rispettano ma si è disposti a sacrificare se stessi e a fare sforzi immensi prima e durante la partita per un risultato tanto effimero quanto può essere la soddisfazione di uscire vincitori. Eppure ci si rende conto di quanto quello sforzo ha senso solo se ci permette di essere persone migliori dopo la partita. E che vincere sacrificando la propria dignità e la relazione con l’altro non porta a nessun premio vero, nessun riconoscimento che abbia valore. L’unico vero riconoscimento è quello che chi compete con te lealmente ti  riconosce alla fine con l’omaggio dell’uscita dal campo e con il terzo tempo.

 

D: Prendiamo il campo della finanza, drammaticamente balzato alla ribalta per il ruolo determinante giocato nell’attuale crisi economica mondiale: qual è il modo di salvaguardare correttezza e attenzione alla dimensione umana per una azienda che opera nel mondo finanziario e che compete con concorrenti a volte spregiudicati e dediti alla speculazione?

 

R: La dimensione fondamentale per il nostro agire è l’essere umano, uomo e donna. Di nuovo, se non vogliamo perderci in una folle gara priva di senso, dobbiamo tornare a un agire che sappia definire bene cosa è strumento e cosa è fine. Dove la persona è fine e la finanza è strumento e non viceversa. I risultati che si possono ottenere invertendo i rapporti possono sembrare notevoli per un po’ ma bastano le esperienze di crisi che stiamo vivendo a ricordare che non può essere che di breve periodo una spinta alla massimizzazione del profitto a danno della persona e della società.

 

D: Perché un investitore dovrebbe accordare la propria fiducia e affidare i propri beni a un’azienda che subordina il perseguimento del profitto a delle regole etiche che l’avversario non mostra di voler accettare?

 

R: Un investitore riesce a comprendere che il rispetto delle regole etiche è fondamentale quando passa dalla dimensione del consumatore, del cliente, a quella del cittadino attivo, quando si rende conto della sua corresponsabilità nella folle corsa che è stata impressa al sistema capitalistico.

Per chi ha responsabilità di governo e coordinamento nei sistemi sociali e dentro le organizzazioni questo può avvenire solo se e quando si ritorna a collegare cittadino e consumatore, riscoprendo una dimensione di prossimità, di localizzazione e di relazione dove lo scambio è regolato dalla norma e dai contratti ma prima di tutto dalla fiducia reciproca, quella degli accordi sulla parola e sulla stretta di mano.

 

D: Torniamo al rugby. Sicuramente una chiave per potenziare il ruolo dei valori in un’azienda può essere la preparazione tecnica e professionale del gruppo. Dopotutto, che si parli di sport o di mercati, i risultati sono in genere il frutto della capacità di affrontare e gestire la sfida. Ma su questo piano il rugby può rappresentare forse un trait d’union fra l’universo dei valori e quello della perfomance, può essere la chiave per raggiungere una mentalità vincente. Per esempio, nel rugby è inimmaginabile pensare di poter vincere un match se i componenti della squadra non nutrono un fiducia profonda l’uno nei confronti dell’altro. Questa fiducia non è cieca ma si fonda da un lato sulla consapevolezza della competenza professionale del compagno e, dall’altro, sulla certezza che egli darà sempre il massimo per vincere la partita. Di nuovo competenze e valori, dunque. Ci sono, inoltre, situazioni particolari – veri e propri “momenti della verità” - in cui la fiducia diventa fondamentale: alludo alla touche e la mischia. In queste fasi l’elevato tasso di rischio e la complessità dell’azione rendono la fiducia un ingrediente fondamentale per il successo; in assenza di fiducia, infatti, non solo fallisce l’azione di gioco ma si mette a repentaglio la propria incolumità fisica e quella dei compagni.

Che ruolo gioca, oggi, in azienda, la fiducia reciproca fra i componenti di un team?

 

R: La fiducia è il collante fondamentale che deve permeare i rapporti tra attori, tra azienda ed interlocutori esterni, che siano clienti e fornitori, ed è alla base di qualunque organizzazione che voglia avere successo. Non è più possibile immaginare che un’organizzazione si regga su organigrammi, norme e procedure, piuttosto che su contratti. Questi possono essere la formalizzazione di una scelta di lavorare insieme, di una partecipazione a un progetto, e trovano spazio in una condivisione di senso e di appartenenza prima ancora che attraverso scelte di opportunità individuale espresse nei puri e freddi termini della razionalità economica

 

D: Può essere un criterio da adottare anche su un piano gerarchico, fra management e dipendenti, ad esempio?

 

R: Non è una questione di livelli o di strutture. Dobbiamo tornare a una visione più artigianale e partecipata del nostro agire collettivo, dove il riconoscimento formale dei ruoli è il riflesso del riconoscimento reale di pesi e di responsabilità. Proprio in questi giorni di crisi e di gestione degli eventi eccezionali ci rendiamo conto che, in tali momenti, non è il ruolo che fa l’uomo ma è l’uomo che fa il ruolo. Le gerarchie non sono più date né da seniority rigide di età o di scolarità, né da imposizioni di ruoli dall’alto. Quelle valgono solo fino a quando non si inizia a giocare veramente la partita delle sfide che sempre più le nostre aziende si trovano a giocare.

 

D: La fiducia, oltre ad avere un ruolo nelle dinamiche dell’azienda che coinvolgono le persone, ha un valore economico in sè?

 

R: Eccome! Non solo le aziende all’interno sono fatte di persone, ma i mercati, le transazioni economiche sono tra persone. Clienti, Fornitori, Competitor, tutti sono influenzati nel loro agire dalle aspettative che hanno nel momento in cui si confrontano con l’organizzazione.

La prima e più importante dimensione della fiducia è quella della velocità con cui si può rispondere a uno stimolo. Se mi fido non verifico, non controllo, posso agire. Se non mi fido devo verificare, controllare, devo porre in atto misure di garanzia. Poter contare o meno sulla fiducia rende più o meno fluido il rapporto in termini di conferme e di impegni che si devono sottoscrivere.

E in un mondo esterno che ha reso poco praticabile il meccanismo della certezza del diritto, in cui non vi è più la tenuta di una moralità pubblica, il valore della stima e della credibilità che un’organizzazione riesce a darsi e a trasmettere ai prodotti e ai servizi che offre diventa forse il capitale più prezioso che ha.


D:
Quale può essere l’effetto di una strategia del coinvolgimento e della fiducia per un’azienda che decida di adottarla?

 

R: Sicuramente coinvolgere e dare fiducia, così come premiare il merito e i risultati in modo leale, rende la partecipazione di tutti non più dovuta a patti economici ma perseguita per realizzare se stessi. Non produce, quindi, soltanto un effetto velocità, che si può apprezzare nelle relazioni esterne, ma permette anche di mettere in gioco molto più efficacemente il contributo e il talento di tutti.



D: La regola del rugby del “passare all’indietro” suggerisce varie considerazioni. Se io per avanzare devo passare la palla all’indietro devo essere sicuro che dietro di me c’è qualcuno pronto a raccogliere la sfera. Dunque devo essere certo che esiste un sostegno alla mia azione. Poiché in questo sostegno è coinvolta l’intera squadra, il presupposto è che via coesione fra i reparti.

Le strategie di gioco del rugby, la sua stessa struttura, rimandano alla sperimentazione delle flat hierarchies aziendali, alle strutture fluide tipiche del post-fordismo e a quella “modernità liquida” di cui parla Baumann. Anzi, potremmo dire che il rugby le ha abbondantemente anticipate. Se questo è vero, è lecito porsi la domanda della relazione tra sport, rugby e leadership:

 

R: Non c’è dubbio che guidare una squadra sia un’esperienza di leadership estremamente formativa. E allo stesso tempo proprio il lavoro corale del rugby e il ruolo del sostegno che un giocatore riesce a dare all’azione anche senza la palla, fa del rugby una metafora di quella leadership diffusa di cui tutte le aziende hanno sempre più bisogno. Non c’è più un solo uomo al comando, c’è il passaggio del testimone a chi è pronto a raccoglierlo.

 

D: Certamente nessuno sport come il rugby esalta le cosiddette “competenze trasversali”: lavoro di gruppo, sostegno reciproco, cooperazione e volontà comune di raggiungere l’obiettivo. Il rugby insegna una cosa: leadership non è solo imposizione gerarchica di un capo ma soprattutto capacità di far sentire importante ciascun singolo componente del gruppo di lavoro. Come rispondono le aziende a questa visione diffusa della leadership?

 

R: E’ un modello ancora non del tutto compreso, si fa ancora fatica a capire che la leadership non è la dote di un capo ma la relazione che c’è tra capo e collaboratore, che non c’è leader se non c’è chi decide di seguire. E in un mondo in cui non si può più fondare la leadership sul poter esplicito e sul comando, c’è uno spazio enorme per cambiare atteggiamento e rendere le nostre aziende più attive e competitive, e per fare in modo che il leader non si ritrovi a essere il collo di bottiglia della propria organizzazione.


D:
Nel campo della formazione outdoor il rugby viene utilizzato soprattutto nella parte esperienziale, in quanto consente di sperimentare, a partire dal contatto fisico con i propri compagni, il grado di coesione del team (pacchetto di mischia) e di condivisione e perseguimento dell’obiettivo (meta). Tuttavia, la vita di un’azienda non si esaurisce nelle dinamiche di gruppo. Se conducessimo un’attenta rilevazione dei fabbisogni, in 9 casi su 10 riscontreremmo che le aspettative individuali del singolo, il ruolo che egli ricopre nell’organigramma, il suo livello di integrazione incidono in maniera determinante sulla perfomance.

L’adozione della metafora del rugby – fortemente incentrata sul gruppo - per rappresentare l’azienda nel suo complesso può mortificare in qualche modo il ruolo del singolo?

 

R: Assolutamente no. Non siamo singoli isolati, sistemi chiusi, siamo persone in relazione e la dinamica di gruppo è fondamentale per stimolare la nostra crescita e per permettere di far emergere le nostre capacità personali.

 

D: E se ciò è vero, in che misura si può integrare con altre strategie formative e di che tipo?

 

Non va mai mitizzato troppo un approccio. Da questo punto di vista bisogna essere capaci di cogliere quando e come poter proporre metafore. Rimane il fatto fondamentale di stimolare le persone e le organizzazioni a mettersi in gioco per migliorare e crescere.

La soluzione che finora ho trovato più efficace è quella di creare un equilibrio tra la proposta di stimoli concettuali, di ricerche, di sperimentazione sul campo, di esperienza, e di analisi e riflessione personale e condivisa sull’esperienza maturata. Solo la formazione attiva ed esperienziale, che sappia stimolare un ritorno al fare quotidiano fatto di prove ed errori, di azione e riflessione permette di avere degli effetti duraturi ed efficaci sulla crescita delle competenze. Recuperando così quell’ora e labora, quel fare e riflettere che è la grande eredità di un maestro come Benedetto.

 

D: Quali possono essere a suo avviso eventuali controindicazioni nell’uso della metafora del rugby come lavoro collettivo per il pieno coinvolgimento del singolo? E quali sono le possibili integrazioni?

 

R: Forse il rischio di un contatto troppo duro? Allora magari useremo il touch rugby![1]



[1]Il Touch Rugby è una variante del rugby a 13 in cui il placcaggio è sostituito da un semplice tocco dell'avversario. 

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